Le lettere a Venezia non hanno bisogno di parole; richiedono solo uno sguardo attento e sensibile. La pittura stessa non richiede parole. Non è verbale, ma è un’esperienza che esiste oltre il linguaggio. Anche le lettere di Karolina sono non verbali. Eppure, sotto le loro superfici pittoriche vibranti e vive, si possono discernere strati su strati di significati.
I dipinti, come le lettere, non possono esistere senza un destinatario, senza uno spettatore. “La pittura è una profezia del proprio essere guardata” disse una volta John Berger.
Ognuna delle lettere di Karolina Árpa è un palinsesto. Ma, a differenza dei tradizionali palinsesti che ci guidano indietro nel tempo, svelando strati sempre più profondi del passato, le lettere di Karolina sono messaggi per il futuro.
Un futuro che si intravede appena attraverso la nebbia turbinante delle sue opere, un futuro che l’artista avvicina attraverso la propria esistenza e la propria arte.
Pennellate turbinanti, ramificate, avvolgenti, protettive — cosa sono? Reti? Alghe? Gocce di pioggia? Particelle sospese nell’aria? Riflessi delle onde? Un autoritratto interiore? Un filo intrecciato, un labirinto? Una ricerca di se stessa e del filo di Arianna? Caos o cosmo?
Per l’artista, Venezia stessa detiene la risposta. Non è solo una città, né semplicemente un mondo; è un modo di essere nel mondo, di percepirlo e trasformarlo. Venezia è sia coautrice che destinataria di queste lettere.
L’opera centrale della mostra si intitola Peremoha che in ucraino significa vittoria e deriva dal verbo poter fare. Karolina Árpa ha potuto fare, e le sue lettere di gratitudine e amore sono rivolte a Venezia e a noi, che le osserviamo.

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